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Mulazzo Dantesca

Di fondazione anteriore al Mille, arroccata su di un erto colle posto a controllo della piana alta della Magra, Mulazzo, con la grande divisione dinastica operata da Corrado l’Antico nel 1221 fu assunta al ruolo di capitale del ramo malaspiniano di estrazione ghibellina detto dello “Spino Secco”, il quale comprese i territori di Villafranca e di Giovagallo. Con la successiva spartizione del Casato operata dai figli dell’Antico, avvenuta nel 1266, il feudo assunse la dignità di marchesato.

Per Mulazzo essere il centro politico del feudo non significava soltanto assumere una precisa veste istituzionale: si trattava anche di rappresentare la corte di riferimento per una tradizione secolare di ospitalità ai poeti esuli. I Malaspina, infatti, anche nella nuova sede di Mulazzo, restavano forse i principali mecenati italiani, ma pure europei, dei troubadour, i poeti erranti provenzali. Una nobile tradizione che si era creata presso la sede avita di Oramala, in Val di Stàffora, già nel corso del secolo XII.

All’epoca della venuta di Dante, il marchesato di Mulazzo era sorretto da Franceschino Malaspina. La figura di quest’uomo non trova menzione nella Divina Commedia, ma a celebrazione indiscutibile del feudo resta l’appellativo dantesco attribuito al nonno in Pur VIII 119:

Fui chiamato Corrado Malaspina;

non son l’Antico, ma di lui discesi:

Assieme a Obizzo il Grande, l’Antico  è certo da indicare come uno dei massimi esponenti della famiglia malaspiniana fino all’epoca di Dante.

Egli fu genero dello stupor mundi, l’imperatore Federico II, poiché una tradizione accreditata (comunque priva finora di dimostrazione contraria) vuole che ne abbia sposato la figlia naturale Costanza. Di lui sappiamo che fu ghibellino accanito: fedelissimo servitore dell’Impero, combatté al fianco dell’imperatore e gli salvò la vita nella disfatta di Vittoria nel 1248.

L’Antico, in quanto artefice della rivoluzionaria scissione della marca, fu il probabile committente dei due Stemmi malaspiniani, i quali si è scoperto che possono essere ricondotti all’opera di Guilhem de la Tor, poeta trobadorico di aperte simpatie ghibelline attivo tra i castelli di Oramala, in Val di Staffora, e la corte di Mulazzo a cavallo di quel fatidico 1221.

Autore della Treva, continuazione di un canto perduto di Aimeric de Peguilhan, Guilhem de la Tor eterna Selvaggia e Beatrice – le figlie dell'Antico – nella finzione allegorica d’una disputa di palazzo: le fanciulle si contendono la palma di reginetta di virtù.

Ebbene, quale sarebbe stata la “Donna”, cioè la Corte, più virtuosa: la Marca dello “Spino Secco”, ghibellina, o l'altra, guelfa, dello “Spino Fiorito”? Le due sorelle, ovviamente, erano i soggetti migliori per una pace che si voleva del tutto “naturale”: la speculazione alchemica sviluppata dal trobadour vuole che i due opposti (il Papa e l’Imperatore) si trasformino in elementi complementari ed inscindibili nella composizione aurea di quell’unica medaglia che è il Buon Governo del Mondo. Così la “Treva”, cioè la ‘tregua’, sancita dall'arte iniziatica del cantore, novello Virgilio, si faceva profezia inconsapevole di una rinnovata Lieta Novella, la Pax Dantis: Dante, in Pur VIII, non farà altro che sostituire le fanciulle con i due splendidi «astor celestiali» a guardia della Nobile Valletta, tanto luminosi in volto da prefigurare i «due Soli» fatali di Pur XVI. Sempre loro, naturalmente: il Papa e l’Imperatore.

A dimostrazione della materia appena affermata si osservi come i soggetti degli stemmi siano presenti, da sempre, in due passi delle primissime liriche della scuola trobadorica. Uno è contenuto nella terza cobbola della canzone Ab la douzor del temps novel (“Col dolce tempo nuovo”), di Guglielmo IX d'Aquitania:

Così va il nostro amore,

come il ramo dello spino:

sta dritto tutta notte

nella pioggia e nel gelo,

domani il sole scalda

la foglia verde e i rami.

L’altro è costituito dai versi finali della prima cobbola della canzone Lanquan li jorn son lonc en mai (“Quando si fanno lunghi i giorni a maggio”), opera di Jaufre Rudel:

il canto e il ramo in fiore dello spino

non amo più dell’inverno di ghiaccio.

In entrambi i passi è ben fissata l’idea del ramo dello spino nella condizione invernale, “secca”, e in quella estiva, “fiorita”.

Si tratta precisamente del principio sapienziale dell'Equilibrio degli opposti, ovvero il confronto positivo di estate e inverno, di sole e oscurità, di caldo e di gelo. Non esistono la “buona” e la “cattiva” stagione: la saggezza dei vecchi ci ha insegnato che è sotto la neve che si prepara il pane. Agli occhi profondi del saggio le cose appaiono diverse forme, apparentemente opposte, ma che sono tutte espressione di quell’unica Bontà che è Madre Natura.

I due stemmi malaspiniani, perciò, nel farsi piena espressione del fondamento dell’intera poetica provenzale, ci dicono dunque che alla base della divisione del Casato ci fu l’idea di dotarsi strategicamente sia della posizione guelfa che quella ghibellina non per sprofondare nella sterile, nefasta diatriba che stava attanagliando l’Europa intera, ma al fine di incrementare il valore di insieme della Famiglia. In altri termini, le due prospettive, quella imperiale e quella papale, dovevano essere complementari, non antitetiche, esattamente come per Ildegarda di Bingen, mistica geniale assai cara ad un imperatore come il Barbarossa, a sua volta partcilarmente caro ad un Obizzo il Grande, valeva per l’Uomo a proposito di entrambe le sue manifestazioni di genere: il lato maschile e quello femminile.

Va detto con ciò che i Malaspina, idealmente capitanati dall’Antico, marchese di Mulazzo, vengono oggi restituiti alla Storia con la dignità che in effetti loro compete: non più ladri di polli, come erano stati da sempre volgarmente descritti, ma autentici reggenti illuminati in tutto degni dell’Elogio assoluto di Dante.

Dante Pierini - Dante e la Lunigiana - 2003

In quanto capitale dello Spino Secco, il borgo di Mulazzo è da considerare il luogo di riferimento della locale ospitalità dantesca. Si dirà perciò che Mulazzo è la Residenza Ufficiale di Dante in Lunigiana, mentre Villafranca e Giovagallo furono frequentati domicilii.

In quest’ordine di idee, se è vero che il grande artefice della venuta del Sommo in Val di Magra è da considerare Moroello II di Giovagallo (non a caso quel feudo è onorato due volte nel Poema, con la citazione di lui e della moglie Alagia Fieschi), è a Franceschino di Mulazzo che va riconosciuto il ruolo di maggior ospite di Dante. Egli ne possedeva, invero, tutte le caratteristiche: sappiamo che intrattenne rapporti con altri rimatori e che rappresentò il vero fulcro dell’intera organizzazione interna dello Spino Secco. Nel 1296 si fece promotore di un patto in cui è facile intravvedere l’intenzione di estendere all’intero Stemma quel principio di tutela del patrimonio familiare che fu imposto per volontà testamentaria da Corrado il Giovane di Villafranca (cosa per cui Dante lo

immagina in penitenza presso l’Antipurgatorio) e il 6 ottobre del 1306 fu proprio lui, non altri, a conferire a Dante la procura in bianco, per sé e per i cugini di Villafranca (ove gli eredi del feudo erano poco più che ragazzi), affinché si pervenisse finalmente alla risoluzione della secolare vertenza con il vescovo-conte di Luni. In quella stessa occasione, per iniziativa di Dante, egli divenne impegnato ad ottenere la ratifica dell’accordo da parte del marchese di Giovagallo, poi puntualmente concessa. A conferma della statura non ordinaria del personaggio va infine considerato che nel 1307 – nonostante fosse rimasto sempre coerentemente legato alla causa ghibellina – il vecchio nemico Antonio Nuvolone da Camilla nominò Franceschino al ruolo di proprio curatore testamentario. Alla luce di una simile biografia è assai probabile che le migliori informazioni circa la storia del Casato e dei suoi numerosissimi personaggi collegati siano sovvenute a Dante direttamente dal marchese di Mulazzo.

Nel Borgo Storico Monumentale sono di estremo interesse diverse emergenze.

Imperdibile la grande base poligonale della torre degli obertenghi. Detta Torre di Dante per una antica e radicata memoria popolare, è parte integrante della cosiddetta Zona Dantesca creata sotto l’amministrazione di Livio Galanti, grande dantista e indimenticabile sindaco del borgo al tempo delle celebrazioni del 1965. Sotto la Torre una tradizione certamente fallace, anche se accolta in un atto notarile di compravendita ottocentesco, indicava come “Casa di Dante” una improponibile costruzione rurale.

Di una bellezza discreta ma altissima si staglia sullo sfondo degli splendidi contrafforti appenninici, sempre nella Zona Dantesca, la sagoma del Dante, ultima opera del maestro carrarese Arturo Dazzi (1965). Anch’essa commissionata da Livio Galanti per il VII Centenario della nascita del Poeta, il monumento rappresenta, secondo esegesi del Centro Lunigianese di Studi Danteschi (CLSD), l’originale idealizzazione di un “Dante madre”, ove il Poeta è ben raffigurato nell’atto originale di tenere stretto sul grembo il Libro della Commedia a mo’ di propria creatura. È senz’altro da restaurare il grande Libro della Commedia, aperto alle due pagine del Canto VIII del Purgatorio, che – lo ricordiamo – del monumento è da sempre parte integrante.

Più in basso, nel paese, nella splendida cornice di una casa-torre le cui fondamenta risalgono al XIII secolo, nell’unico vano rappresentato dal piano nobile dell’antichissima struttura, caratterizzato da una splendida trifora rinascimentale, si trova la Casa di Dante in Lunigiana®, struttura polivalente sede ufficiale del CLSD. Tenuto a battesimo il 21 giugno del 2003 dall’Ambasciatore Bruno Bottai, Presidente Internazionale della Società Dante Alighieri, e da Dolorés Puthod, artista di fama internazionale, il museo raccoglie tutto quanto abbia attinenza, nella vita e nelle opere di Dante, alla terra di Lunigiana.

Epigrafe del Centenario

Sulle mura esterne della casa-torre, lato ovest, è apposta l’Epigrafe del Centenario a memoria dell’Anno Dantesco del 2006, dedicato ufficialmente a Livio Galanti, e in laude del Canto VIII del Purgatorio.

Un’altra epigrafe dantesca, sempre dettata dal CLSD, è affissa al muraglione sotto la Torre di Dante a ricordo delle celebrazioni del 2015 per il 750° della nascita del Sommo Poeta.

Da annoverare, ancora, l’eccezionalità di un’epigrafe sepolcrale datata 1338, tuttora ben conservata nella facciata di una casa (e da proteggere), dedicata a un “Rosselmo di Ghino da Pistoia”. Attribuire il monumento ad un figlio spurio di Cino, tra i massimi amici di Dante, è ipotesi particolarmente affascinante ma ritenuta priva di fondamento in un lavoro tuttavia assai datato5. Tuttavia, un incontro in Mulazzo tra Dante ed il devotissimo amico poeta è da considerare molto probabile: Cino era in rapporti di stretta amicizia con il marchese Moroello II di Giovagallo, che fu capitano del Popolo a Pistoia, e va senz’altro considerato come l’artefice più accreditato della venuta del Poeta in Lunigiana6. L’esistenza di un figlio naturale è certo cosa possibile e la 

devozione stessa con cui l’epitaffio è stato conservato lascia decisamente pensare ad un legame glorioso di quel personaggio con il borgo di Mulazzo.

Da registrare, infine, una nota di folclore: una diceria popolare - certamente originata da campanili avversi, invidiosi della reale Ospitalità qui offerta - vuole che Dante, congedandosi dal Castello, abbia pronunciato le seguenti parole: «Mulo Mulazzo, mulo ti trovo e mulo ti lascio».

Mirco MANUGUERRA

Copyright 2016 - Centro Lunigianese di Studi Danteschi

                     Pane e fuoco per San Antonio Abate

Falò è una parola che deriva dal latino medievale fallodia ( fare fuoco in segno di letizia) ed è con questo significato che la Lunigiana si accende di grandi falò bene auguranti. Il granduca Pietro Leopoldo nelle sue memorie racconta che “ la Lunigiana si incendiò di fuochi per festeggiare la nascita di suo figlio”, ma in ogni paese i falò erano legati soprattutto alle feste religiose, fatta eccezione per i fuochi di carnevale, accesi in ogni casa per bruciare le cose negative dell’anno passato e “per salutare il carnevale che passava e andava in Lombardia”, dove seguendo il rito ambrosiano il carnevale si festeggia ancora non il martedì grasso, ma il sabato seguente. Ma il grande falò rituale del mondo contadino era quello dedicato a Sant’Antonio Abate, il grande santo eremita dei primi secoli del cristianesimo, grande pensatore e fondatore del monachesimo, oggi più conosciuto come protettore degli animali domestici. A Mulazzo la festa del Santo era associata a quella della distribuzione gratuita del pane ai capifamiglia, in virtù di un antico legato che ancora oggi viene assolto dal comune. Alla fine del 1700 si occupò del pane di Sant’Antonio il marchese illuminato e liberale Azzo Giacinto Malaspina, finito prigioniero e morto nelle carceri austriache per le sue idee ispirate alla rivoluzione francese. Azzo Giacinto, volendo dotare i sudditi del suo feudo di un fondo economico per riparare ogni volta che fosse necessario gli argini della Magra, donò le terre del Pianturcano dell’Arpiola e ridusse ad un solo pane i due che si distribuivano per Sant’Antonio ad ogni famiglia e così spiegò perché almeno uno fosse necessario lasciarlo : “la gente crede che il pane sia utile per molti loro bisogni e la buona fede puol servire molto”. Così la tradizione ancora oggi continua. Ma chi osservi la statua di Sant’Antonio si accorge che sono rappresentati un maiale ed un fuoco : il maiale ricorda come i monaci di Sant’Antonio che fondarono molti ospedali ( quelli di Pontremoli e Fivizzano hanno ancora il nome del Santo) allevassero maiali per utilizzare il grasso nella cura delle malattie della pelle, compreso il temibile “fuoco di Sant’Antonio”. Ed ecco, allora, che il fuoco ricorda non solo il bruciore dell’erpes zoster, ma anche la purificazione che con le fiamme si faceva dei luoghi infetti. Il grande falò in onore del Santo era, dunque, segno di festa e di gioia, ma anche di purificazione e propiziazione per il tempo di semina e raccolti che si annunciavano con l’imminente primavera. Forse questo fuoco richiamava inconsapevolmente alla memoria anche un’antica pratica agricola che praticavano i Liguri autori delle nostre statue stele: quella del debbio la cui memoria è conservata ancora in tanti toponimi quali Debbia, Inferdebbia, ecc. I Liguri usavano incendiare pascoli e boschi per fertilizzare i terreni e strappare nuove terre da mettere a coltura. Ma per Sant'Antonio, incorniciate dagli archi medievali dell’acquedotto malaspiniano, a Mulazzo le fiamme del falò faranno festa al Santo , agli abitanti di Mulazzo, ma anche a chi vorrà salire a festeggiare in quella che fu la capitale dei Malaspina dello Spino Secco.

(Dott. Riccardo Boggi)

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Le Cascate di Parana 

La si raggiunge unicamente percorrendo il letto del torrente in un breve percorso di un km e mezzo circa, non ci sono particolari pericoli lungo il percorso ma le rocce del torrente sono a tratti scivolose e necessitano di un poco attenzione. Per arrivarci si deve parcheggiare nei pressi de ponte che da Parana porta a Montereggio, sulla sponda destra, una volta attraversato il ponte scendendo lungo l’alveo del fiume , si deve far attenzione e tenersi alla sinistra  lungo l’alveo, il canale della Carlina.

 Dopo poco, si inizia a vedere la vegetazione che si stringe sulle sponde e si inizia a sentire l'acqua, all'inizio un piccolissimo rigagnolo, poi assume le sembianze di un torrente, una volta raggiunto la cascata vi troverete ad ammirare un ambiente selvaggio, lo spettacolo è unico! La cascata scende facendo due salti: nel primo grande salto l'acqua cade dentro una grossa pozza scavata nella pietra per poi uscire nuovamente in un altro salto, ideale per un bagno estivo 

Durante l’estate con la preziosa collaborazione di Sigeric Coop Servizi per il turismo saranno organizzate delle giornate di visita alla cascata, al borgo di Montereggio con sosta pranzo degustazione alla gerla d’oro, per info e prenotazioni è possibile trovare tutte le informazioni sui nostri canali web.

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